Il re delle Alpi Apuane

Il monte Pisanino, 1946mt


Il primo approccio alle Apuane è stato superlativo, la zona delle Panie, le Apuane più a Sud; ambienti selvaggi e pietrosi, oltre il limite del bosco pareti scoscese, canali ghiaiosi molto ripidi. Ieri la Pania della Croce, considerata la regina delle Apuane, oggi il Pisanino che con i suoi 1946 mt è la più alta vetta di questo gruppo, indiscutibilmente il suo re; considerata da molti la più complicata delle vette non alpinistiche di questo territorio, creste affilatissime e ripide e due pagine verticali di roccia e paleo, i folti tappeti erbosi di grossi ciuffi d’erba tanto affidabili come appigli in salita quanto saponette in caso di scivolata inopportuna. L’avvicinamento al Pisanino è come al solito complicato e tortuoso, i monti da queste parti sono ingarbugliati e verticali, lasciano davvero poco spazio alla viabilità; venendo da Sud, da Lucca, sulla SR 445 si abbandona il fondovalle della Garfagnana circa 15 km dopo Castelnuovo in Garfagnana, a Piazza al Serchio, e ci si dirige verso Gramolazzo, soli 8 km di curve, nei pressi dello specchio verde cupo del lago omonimo abbiamo il primo approccio col Pisanino, è la montagna che si alza scura e boscosa, dopo una serie di piccole morbide elevazioni, sopra lo spigolo del lago. Da questo, per altri 4 km, ci dirigiamo verso Minucciano, non lo raggiungiamo, un paio di chilometri prima del paese e pochi metri prima di una galleria giriamo a sinistra ed entriamo in Val Serenaia, segnali turistici indicano Orto di Donna il nome con cui è anche conosciuta questa valle, sette chilometri ed arriviamo al rifugio che porta inevitabilmente il nome della valle, appunto Val Serenaia. La strada sale costante tra tornanti e qualche minimo dissesto , un bosco meraviglioso quasi non ci fa accorgere che stiamo entrando in una valle stretta che si va infilando nel cuore delle Apuane e che va aggirando la ripida mole del Pisanino. Tra svolte e diradamenti della vegetazione ci si ritrova al cospetto di pareti verticali, denti aguzzi di roccia stratificata si ergono imponenti sopra folti e verdissimi boschi, sono gli Zucchi di Cardeto, chiudono la valle, avremo domani modo di avere un contatto molto ravvicinato. Siamo a quota 1060, nella piana di fondo valle si erge l’incantevole rifugio , tutto intorno si respira alta montagna, si alzano alcune delle vette più importanti delle Apuane, oltre al Pisanino, il Pizzo d’Uccello, la ruvida cresta Garnerone, il monte Contrario ed il monte Cavallo; peccato quel lungo sfregio che stona con tutto l’ambiente, deturpa e taglia il versante della cresta Garnerone, discutibile quanto inevitabile contributo all’economia dovuto all’invadente estrazione marmifera. Proprio di lato al rifugio, letteralmente a poche decine di metri, si piantano le fondamenta del Pisanino, una montagna vera, che scende verticale per 900 mt; una pagina concava che si raddrizza e si fa rocciosa via via che sale verso la vetta, letteralmente verticale; due dorsali erbose iniziano a salire proprio a fianco del rifugio, salgono in diagonale a sinistra del paginone concavo e convergono in quella principale che sale ai 1807 metri della Bagola Bianca. Un primo tondo spigolo roccioso, praterie di paleo, pendenze accentuate, diversi salti di roccia stratificata mista all’immancabile paleo e che convergono fino alla cresta principale, lo spigolo della Bagola Bianca, e poi l’ultima sottilissima cresta fino in vetta… è il biglietto da visita di ciò che ci aspettava domani; e le difficoltà supereranno di gran lunga il facile entusiasmo del momento. La giornata è iniziata alle 4, il lungo viaggio di avvicinamento, più di 500 km e l’escursione sulle Panie; tutto si chiude nella piacevole accoglienza della signora Giovanna, la vulcanica gestrice del rifugio. La doccia mette la lunga giornata alle spalle , la cena degna di un rifugio da cinque stelle fa il resto, su tutto il tagliere a base di lardo della Garfagnana che tocca a dir poco la standing ovation e che non fa in tempo ad atterrare sulla tavola che è già terminato, uno sguardo dalla finestra della stanza a ciò che ci toccherà domani e dopo una profonda rigeneratrice dormita arriviamo all’oggi, ora occorre smettere di immaginare, ci tocca davvero affrontare e sudare le scorbutiche credenziali del re Pisanino. Giorgio ha preparato l’escursione nel dettaglio, era talmente preparato su questa montagna che mentre lo sentivo parlare di quello che avremmo trovato ad ogni passo avrei potuto scommettere che non era la sua prima; due sono le vie di salita a questa montagna, la normale e quella per le dorsali descritte poc’anzi fino alla la Bagola Bianca, la secondaria vetta rocciosa che prende probabilmente il nome dalla roccia bianca che la contraddistingue. Giustamente per non farci mancare nulla il nostro stratega ha immaginato un anello, la salita per la Bagola Bianca e la discesa per la cosiddetta normale. Ora voglio permettermi una benevola e spero divertente provocazione verso la gente del posto che ha assegnato questi toponimi. Bagola sta per bacca, un richiamo a qualcosa di mangereccio, di succoso, di godibile; normale, sta per . . . normale, più semplice di così si muore. Tanto per chiarire bene i concetti su questa montagna, e per non far nutrire false speranze a chi mai mi leggerà, la Bagola Bianca non ha nulla di godibile, da queste parti il solo pronunciarla incute rispetto e per molti, visto che in tanti del posto non l’hanno mai usata per salire al Pisanino, anche timore; la via normale credo abbia ricevuto questo titolo per il solo fatto che sia l’unica via di salita sentierata, ma attenti a prenderla sottogamba, le esposizioni lungo il percorso si raccolgono a mazzetti, e sul canale delle Rose ritrovarsi i polmoni in gola e le gambe di gesso credo sia cosa normale. Insomma il diminutivo dato al monte “Pisanino” non ha valore di montagna facile e le sue vie di salita sono da intendersi sempre e comunque ad uso di escursionisti esperti (EE), in qualche tratto aggiungerei anche un bel segno più (EE+); soprattutto è una montagna sulla quale è proibito soffrire le esposizioni e che va presa con diffidenza in caso di bagnato e peggio ancora di ghiaccio. Così, tanto per puntualizzare. So che una relazione di una escursione dovrebbe essere tecnica e coincisa ma io non ci riesco proprio a farle brevi e tecniche, per cui vorrei ancora perdere una manciata di tempo, prima di raccontare le pene dell’escursione, per parlare dell’etimologia del nome “Pisanino” che ha a tutti gli effetti dei legami con la città di Pisa; una leggenda romantica racconta che il monte si chiama Pisanino perché due soldati pisani, accusati di tradimento, fuggirono e si rifugiarono in Garfagnana. Uno dei due morì durante la fuga. Il secondo arrivò ferito presso un'abitazione in cui vivevano un uomo e sua figlia. Il soldato non disse il proprio nome e allora cominciarono a chiamarlo "il pisanino". La giovane ragazza, curò il soldato e se ne innamorò ; nonostante le cure e l’affetto il soldato morì e venne seppellito poco lontano dall'abitazione. Sulla sua tomba la ragazza andava tutti i giorni a piangere per la disperazione ed ogni sua lacrima si trasformò in pietra e in poco tempo si formò il più alto monte delle Apuane, che venne chiamato appunto il "Pisanino". Va detto che una volta in vetta nulla della romantica storia mi è tornato alla mente, qualche lacrima in meno, forse … Il nome locale originario del Pisanino è però "Pizzo della Caranca". Dopo tanto chiacchierare vengo alla nostra giornata. Usciamo dal rifugio intorno alle 8 della mattina, la signora Giovanna ci consiglia l’attacco sulla dorsale di sinistra delle due che convergono verso la piana del rifugio e che coincide con le flebili tracce di erba schiacciata che salivano zigzagando e che avevamo intuito. Una volta superato il torrente secco, il paleo di cui è formato il prato è molto alto e peggio ancora bagnato dalla rugiada della notte. Ci facciamo strada tra l’erba, in meno di un attimo siamo bagnati zuppi fino alle ginocchia; prendendo il pendio la traccia che risultava evidente da sotto non lo è più, cerchiamo di raggiungere dei riferimenti che ci eravamo posti. Scegliendo di volta in volta la linea migliore incrociamo la traccia di calpestato ed iniziamo a seguirla. A tratti ci rifacciamo a traiettorie che ci risultano più adatte, in altri intercettiamo ancora la traccia precedente fino, molto velocemente, a salire di quota. Il primo assaggio è dirompente, capita di rado di trovarsi catapultati immediatamente dopo la partenza in pendii da togliere il fiato, sta di fatto che la pendenza aumenta costantemente ed in circa un’ora siamo già al cospetto delle prime rocce, il primo spigolo dove inizia la cresta che sale diretta alla Bagola. Il pendio aumenta ancora, ormai si usano frequentemente le mani e prezioso diventa il paleo, in alcuni casi unico appiglio sicuro cui affidarsi. Saliamo ed intercettiamo la dorsale che sale diretta alla Bagola, è più sottile, più stretta, a sinistra scende ripida una valle profonda, stiamo salendo su uno sperone sporgente e con inclinazione negativa sotto, Luca che è più in alto se ne accorge e ci invita a spostarci verso destra, sulla sinistra oltre la cresta sale dal buio fondovalle del Serchio di Gramolazzo la scura cresta della Forbice. Impressiona a tratti il pendio che lasciamo dietro, quando più quando meno è uno scivolo infinito; quando approcciamo il tratto della dorsale prima del tondo sperone, il fondo si fa ancora più scomposto, ancora roccia mista a paleo, roccia anche poco sicura, instabile, scivoli ripidi difficili da approcciare ci spingono obbligatoriamente verso tratti, anche se più sicuri, molto più ripidi. Ognuno sale con la propria esperienza, ormai i bastoncini non servono più, piedi e mani ad ogni passo, in alcuni momenti il compagno che ci precede è talmente ripido su di noi che gli scarponi sono vicinissimi all’altezza della nostra testa. Sono questi gli attimi in cui intuisci che sei quasi in un punto di non ritorno, sarebbe difficile riprendere la via della discesa con quelle pendenze e su quell’erba, ed è quello il momento in cui rimpiango di non essermi portato la piccozza. Ma chi poteva immaginare? Certo è che da sotto non c’era la benché minima sensazione di queste esposizioni. Arriviamo con i polmoni in gola e le mani piene di terra sullo sperone poco sotto la vetta della Bagola, una piccola ma visto ciò che abbiamo affrontato fino ad ora anche troppo ampia sella, da queste parti si chiama “Foce”, ci fa rifiatare. L’ultimo tratto lo facciamo carponi, dove non c’è roccia ci affidiamo al paleo, fino a raddrizzarci quando la rotondità del pendio ci dice che non c’è (per il momento) più nulla da salire. Un piccolo ometto ci dice che siamo sulla Bagola Bianca, 1807 mt, 800 di continua ripidissima salita. Esaltante ora che siamo seduti a riprendere fiato, ora che si apre l’intero panorama fino all’Appennino toscano-emiliano, fino allo smeraldo del lago di Gramolazzo più di 1200 metri là sotto. Alle nostre spalle finalmente riusciamo ad apprezzare anche tutti i ripidi costoni che racchiudono la Val Serenaia, il Pisanino col suo spigolo accentuato, gli Zucchi di Cardeto, Pizzo Maggiore , il Cavallo e il Contrario, la Cresta Garnerone e il Pizzo d’Uccello formano un anfiteatro roccioso immenso, una fascia rocciosa spigolosa, scomposta, ruvida, sempre affascinante; la sola foce di Giovo, dolce erbosa sella prima del pizzo d’Uccello ad interrompere tanto proliferare di roccia. E tutti a formare una conca dove va a perdersi la Val Serenaia, dove il fitto bosco di faggi si va ad arrampicare fin tanto che può. E le Alpi Apuane iniziano ad entrarci dentro, iniziamo a vedere il loro fascino intimo, montagne che si seguono una all’altra, a formare ripidi costoni e insaccate valli, montagne continuamente profanate dalle profonde ferite delle cave di marmo, montagne a vederle ruvide e selvagge ma profondamente antropizzate. Ogni cantiere estrattivo ha le sue vie d’accesso, tutto il fianco della cresta che va dal Contrario fin quasi a Pizzo d’Uccello ha un segno di devastazione, il bianco del marmo, quello meno invasivo delle vie di accesso, devastano tutto il versante, eppure le Alpi Apuane solo lì, nulla è fuori posto, nemmeno queste profonde ferite. Sono la storia di queste montagne, sono nelle fantasie di chi non conosce questi luoghi, sono nell’immaginario ancora prima delle montagne stesse. E’ la cresta verso Sud, e che sale ripida al Pisanino, che ci desta da questi pensieri: lunga, sinuosa, a tratti sottile, anzi sottilissima, a tratti molto ripida, soprattutto nella parte sommitale, anche un salto di roccia nella parte centrale che sappiamo essere definito come il passaggio chiave della salita, e soprattutto sempre, sempre, sempre esposizioni forti, di quelle in cui è vietato sbagliare. A vederla dalla Bagola è davvero magnifica e poco rassicurante, ma eravamo lì per quella cima e quella cresta ci divideva da lei, andava affrontata. Impossibile pensare di aggirarla sui fianchi verticali della montagna. Riposati dall’estenuante salita partiamo in silenzio concentrati sulle difficoltà cui andavamo incontro; chi a “quattro zampe” , chi con i bastoncini per avere sempre quattro punti di equilibrio affrontiamo i tratti più stretti della crestina, alcuni davvero una lama sottile non più larga di 30 cm. , in bilico su pagine di roccia mista ad erba che scendono con pendenze sempre superiori ai 50 gradi, molti tratti anche di più. Occorre non soffrire di vertigini, occorre rimanere concentrati su quello che si sta facendo e non badare al vuoto che c’è intorno. Superiamo il primo tratto della cresta meno ripida, arriviamo al cospetto del salto di roccia, Luca lo vorrebbe aggirare da destra, ma lo dissuado, la pendenza su quel lato è superiore ai 70 gradi, praticamente un muro; lo superiamo facilmente al centro, in fondo si tratta di uno stretto diedro e gli appigli sono sicuri. E’ il vuoto che può “impanicare”, le difficoltà non sono superiori al 2° grado, ma come sempre azioni decise e sicure ti tolgono dagli impicci . Tutti e quattro passiamo senza patemi, siamo sopra il salto; sarà l’adrenalina, sarà l’aver superato con scioltezza il punto cruciale, sarà che la pendenza che ci divide dalla vetta non ci sembra più così ripida, alla fine dei giochi la sottile crestina dalla Bagola alla vetta del Pisanino è stata più difficile a pensarla che a farsi. In vetta l’adrenalina se ne è andata completamente e ci si sente sgonfi, subito però rinfrancati dal successo e dalla vista che ora è a 360° fino alle Panie di ieri, fino alla cava del passo della Focolaccia, fino al mare. Peccato per la foschia che limita l’orizzonte, dalla vetta si potrebbero arrivare a vedere i profili delle isole d’Elba, Gorgona e Capraia fino alla Corsica, e tutte le prealpi liguri fino alle Marittime. Pochi minuti ed arrivano due escursionisti per la normale, sono i ragazzi che avevamo incontrato la mattina al rifugio, sono del posto, ci scambiamo consigli ed informazioni, vorrebbero scendere dalla Bagola Bianca, li sconsigliamo ed accettano di buon grado il nostro suggerimento. In cambio ci danno informazioni utili sul sentiero di ritorno, sulle montagne intorno, sulle Apuane in genere. Sono orgogliosi delle loro montagne e ne hanno tanti di motivi per esserlo, è facile fare amicizia in montagna. Dopo aver firmato il libro di vetta riprendiamo a scendere dalla parte opposta, la cosiddetta via normale. Per un centinaio di metri, forse poco più, è una scomposta cresta articolata in vari sali scendi, sempre un misto tra roccia ed erba, tra tratti sentierati ben marcati e tratti sottili sul filo di forti pendenze. Sul Pisanino l’esposizione non manca mai. Prima dell’ultima gobba, dove verso Nord la cresta sprofonda, sulla destra, c’è l’imbocco del canale delle Rose, da percorrere interamente con pendenza più o meno costante e sempre oltre i 40 gradi. Sembra impossibile faccia parte di una via normale, eppure è interamente sentierato, un misto di roccia, sfasciumi e paleo, mai un tratto diritto per più di due metri, ma si fa facilmente, in discesa i bastoncini sono fondamentali, in salita forse spaccherà le gambe, di certo salire e scendere da questo canale è più facile che dal versante della Bagola Bianca. Quando arriviamo sulla sella, Foce Altare 1750 mt, siamo a cavallo tra la Val Serenaia e la valle dell’Acqua Bianca, sopra e davanti abbiamo le lame dei Zucchi di Cardeto che salgono verticali e stratificate, e, vista suggestiva perché ci siamo avvicinati notevolmente e perché ha un forte richiamo ai gironi danteschi , la cava sul passo della Focolaccia, una grande e attivissima cava marmifera che sta facendo diventare quella che era una sella tra il monte Cavallo ed il Tamburra una vera forchetta. Durante la vita produttiva di questa cava, si legge nelle pagine che riguardano le Apuane, il passo della Focolaccia è stato abbassato di 50 mt !!!! Si continua a scendere ora nel versante opposto, quello della valle dell’Acqua Bianca, la sempre presente strada bianca polverosa che sale con stretti tornanti fino alla cava la squarcia letteralmente senza disturbarne il fascino. Il primo tratto di sentiero sotto gli Zucchi è ripido e serpeggia con strette svolte, poi taglia un versante erboso molto ripido e diventa ben tracciato, non presenta grandi difficoltà e per lo più si snoda pianeggiante . Sono alcuni traversi sotto il Pizzo Maggiore che vanno affrontati con cautela, si tratta di un tratto nemmeno troppo breve che si svolge su una parete rocciosa fatta di scaglie, di speroni e lastre sporgenti quel tanto che basta per appoggiare, in alcuni casi, non più di mezzo scarpone. La pendenza è simile a quella precedente, la precarietà degli appoggi , e, aggirando un tondo spigolo, soprattutto la forte esposizione, lo rendono interessante e nello stesso tempo critico. Gli appigli ci sono, la verticalità della parete li rende del tutto comodi e pratici, per chi è abituato alle esposizioni e ai passaggi incerti da superare con passo veloce e sicuro le difficoltà sono minime. Penso a chi camminatore meno esperto e che leggendo di una via normale si trovi su questi tratti senza essere stato preparato . . . qualche problema lo potrebbe avere; un aiuto può venire dai bolli azzurri che molto frequenti suggeriscono il piano e la linea da tenere. Insomma, per tutti, cautela su questo tratto. Subito dopo Pizzo Maggiore il sentiero si abbassa molto, qualche tratto finalmente “pacifico” del percorso ci permette di camminare spediti e rilassati, usiamo un bell’angolo della testa della valle, all’ombra di isolati alberi, per una breve sosta mangereccia. Poco scostato dal sentiero un cespuglio di Peonie selvatiche in avanzata fioritura fa bella mostra di se, sono rare a vedersi, più comuni sulle Alpi, quasi impossibile vederle sulle nostre montagne, inutile dire che io e Giorgio abbiamo “perso” tempo a fotografarle. Prossimo obiettivo la cava là davanti, la vetta del Tamburra è troppo lontana per consentirci un sereno rientro al rifugio Orto di Donna che ci attende . Sempre segnato con bolli azzurri il sentiero riprende a salire su grosse rocce prima e su ripidi tornati sentierati dopo, la direzione è quella di Foce Cardeto che ci riporterà nel versante della Val Serenaia. Stiamo cercando un incrocio che sappiamo esserci, prendendolo a sinistra dovremo arrivare al passo della Focolaccia in una mezz’oretta. Dopo un ormai faticoso salire di circa 150 metri , la stanchezza unita al caldo inizia a minare le nostre riserve; intercettiamo l’incrocio nei pressi di una roccia dove è stato scritto con la stessa vernice azzurra dei bolli e a caratteri extracubitali il nome del monte, “PISANINO”. Venendo dalla parte opposta, da foce Cardeto, la scritta risulta meno visibile, è un bel “semaforo” per indicare la deviazione verso la vetta principale, ma in caso di erba alta potrebbe non essere visto, credo sia importante sapere che esiste. Fino al passo della Focolaccia il sentiero scorre più o meno pianeggiante tagliando le radici del monte Cavallo, In ombra viaggiamo veloci, veniamo distratti solo da richiami di una cordata che sta quasi per uscire in cresta alla verticale parete. Si tratta del sentiero n° 179, quello che va dalla Focolaccia a Foce Giovo sotto al Pizzo d’Uccello passando per il rifugio di Orto di Donna, l’unico percorso della giornata per dire così, ufficiale, con un nome assegnato dal CAI. Il resto del nostro percorso è basato su tracce senza riconoscimenti di sorta tranne il tratto da Foce Altare all’incrocio col 179 che è contraddistinto solo da bolli azzurri. Per fortuna è Sabato pomeriggio, i lavori all’interno della cava sono fermi, l’aspetto della cava, anche da vicino, ricorda un girone di dantesca memoria. Gradoni intagliati intorno alle curve delle due montagne e che convergono verso il valico, si alzano uno sull’altro a formare un anfiteatro, ricordano un bianchissimo geometrico teatro sulla fattispecie di quelli dell’antica Roma; i gradini del teatro sono alti una decina di metri, tutto ha dimensioni enormi all’interno della cava, anche i macchinari che nonostante tutto, rispetto alle dimensioni dei massi intorno sembrano giocattoli per bambini. Pagherei perché mi spiegassero come si svolge il lavoro all’interno di questa fabbrica all’aperto. Aggiriamo la cava, all’interno è proibito entrare, è spettrale e affascinante nello stesso tempo, il sentiero per scavallare il passo passa sopra l’ultimo gradone e sotto la dorsale che scende dal Tamburra. Stavamo camminando sul mamo di Carrara, mai calpestato sentiero più lussuoso e più triste nello stesso tempo. Da questo tratto sono evidenti i 50 metri di scavo sulla forcella, rimane poco per aprire una forbice tra le due montagne, anche lo storico rifugio Auronte è ormai sfiorato dalla cava, non dista più di cento metri dallo spigolo più vicino degli scavi. Girovaghiamo sopra la cava, tra i blocchi sparsi ad arginare le strade polverose che salgono anche dall’altro versante; nonostante gli scavi e la cava il passo della Focolaccia rimane un incrocio importante per le alte vie delle Apuane. Proliferano segnali del CAI, grossi blocchi di marmo vengono utilizzati come omini, meglio dire omoni, segnavia. Il silenzio è totale, spettrale è la cava, fatta di grandi geometrie spigolose, forte è il contrasto con la parete che sale al Cavallo, la montagna che siamo abituati a calpestare finisce e sprofonda nel suo steso cuore bianchissimo e compatto; la cava è una cicatrice della montagna, una enorme ferita che mai si ricomporrà, basta sollevare lo sguardo per vederne altre tutto attorno, vorrei urlare che è una devastazione, che non è giusto, ma non ci riesco; percepisco l’importanza di questi scavi, sento il fascino di queste geometrie, ne percepisco il ruolo per le comunità montane di qui, intuisco che sono la storia stessa delle Apuane; un po’ come un neo vezzoso su un bel viso di donna. Mi chiedo se le Alpi Apuane avessero avuto la stessa fama senza le cave. Rimaniamo colpiti da questo ambiente, non so se positivamente o negativamente, forse non c’è nessuna delle due sensazioni dentro di noi mentre ce ne ritorniamo indietro. Di certo è stato molto interessante visitarla, sono certo che non verrà mai dimenticata. Ritorniamo per lo stesso traverso sotto il monte Cavallo, veloci raggiungiamo la pietra semaforo del sentiero per il Pisanino, a corto di acqua ormai ci rinfreschiamo su un provvidenziale cumulo nevoso che è rimasto compatto all’ombra di uno dei tanti pozzi carsici che ci sono in zona. Superiamo gli ultimi cento metri di dislivello che ci separano da Foce Cardeto, una bella e stretta sella a 1680 mt, che divide la prima gobba del monte Cavallo dal Pizzo Altare. Stiamo rientrando in Val Serenaia, ci attende un’ora di tortuoso sentiero che si snoda alle falde del monte Cavallo e del Contrario , immersi nel bosco. Alcuni speroni fanno godere una bella prospettiva degli Zucchi e soprattutto del Pisanino, da qui il canale delle Rose sembra verticale e impossibile da salire. Gioco delle prospettive. Fine della giornata al rifugio Orto di Donna, splendida struttura posta a 1500 mt di altezza, poco lontano da un’antica cava oggi parzialmente recuperata e reinserita nel contesto montano. Il passo delle Pecore è poco sopra, da li parte la ferrata e la palestra di roccia del monte Contrario tanto famosa tra gli arrampicatori. Fino al tardo pomeriggio il rifugio è affollato, il piazzale è pieno di escursionisti ; birre gelate prima di una doccia miracolosa e ancora birre subito dopo, ci rimettono in fretta dalle fatiche. Lentamente il sole scende, i colori si scaldano, la Val Serenaia è meravigliosa contornata dai suoi colossi. Andiamo a cena coccolati e serviti da Stefania e Giulia, Orto di Donna è un rifugio al femminile alla pari di quello di fondo valle da cui siamo partiti; fuori il sole scende, il cielo prende tutte le note dell’azzurro e del blu. Sugli ultimi bagliori color sabbia si staglia la piramide di Pizzo d’Uccello, la nostra meta di domani.

DATI RIASSUNTIVI DELL'ESCURSIONE:

PARTENZA : Rifugio Val Serenaia , 1100 mt – per leggere tracce e scegliendo le linee di volta in volta migliori si sale per la dorsale che nasce a lato del rifugio (delle due che scendono oblique e parallele quella a sinistra), attenzione forti pendenze su terreno erboso e instabile, assenza di segnavia

Bagola Bianca 1809 mt

Monte Pisanino 1946 mt - crestina molto esposta e a tratti molto sottile, un salto roccioso a metà cresta con difficoltà max 2° grado ma con esposizioni notevoli

Canale delle Rose - canale molto ripido ma sempre sentierato

Foce Altare 1750 mt

Passo della Focolaccia 1650 mt, cava - traverso lungo con esposizioni su pendii accentuati ma senza grosse difficoltà. Necessario in alcuni tratti passo sicuro.

Foce Cardeto 1642 mt

ARRIVO : Rifugio Orto di Donna 1500

Dislivello totale in salita 1200 mt

Dislivello totale in discesa 700

Percorsi in totale 13 km in 9 ore

Nota: dal Rifugio Val Serenaia alla Bagola Bianca sono 700 i metri di dislivello per 1,5 Km percorsi.